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La società dello spettacolo

 

La società dello spettacolo è


un fenomeno che è stato introdotto da Guy Debord. In merito a questo

fenomeno, lui afferma: "Lo spettacolo è la principale produzione della società attuale", e tutta la vita delle

società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un'enorme

accumulazione di spettacoli".

Lui sottolinea l’importanza dell’apparire nella società dello spettacolo, individuando anche una

decadenza dell’essere in avere. Per Debord l'avere cede all'apparire, come l'essere ha fatto con

l'avere. L'avere viene quindi sottoposto all’importanza dell'apparire. In realtà, l'apparire nella

società dello spettacolo si può individuare in due modi: in primo luogo abbiamo l'apparire delle

merci, che serve per aumentare le vendite, e in secondo luogo abbiamo l'apparire degli uomini. In

questo caso l'apparire, che oggi è concentrato sulla visibilità, è necessario ai vantaggi economici,

sociali e politici.

Per concludere questo discorso, per Debord, la realtà è la seguente: l'apparire è in funzione

dell'avere. Questo vuol dire che se l'avere ha sostituito l'essere, lo stesso deve aver fatto anche

l'apparire. Di conseguenza, l'apparire ha sottolineato la divisione tra l'uomo di spettacolo e l'essere

dell'uomo. L'uomo di spettacolo, per quanto riguarda la sua apparenza, è ancora più distante

dall'essenza umana. E per uomo di spettacolo non si intende solo il professionista, il conduttore

televisivo, ecc, ma soprattutto, l'uomo che vive nella società dello spettacolo, "protagonista

inconsapevole" dello show che lo circonda. Questo è quello che in generale afferma Debord.

In seguito abbiamo anche un’affermazione di Jeremy Rifkin, il quale afferma che La società dello

spettacolo si impone anche alla circolazione delle merci trasformando il consumo pagante in

shopping. L'apparire è diventato così il reale modo d'esistere delle masse dell'Occidente.

 

Domande pag 599

 1)

V

F

F

2)

C

3)

Metodo induttivo

4)

Se si parla dei risultati ottenuti, possiamo banalmente affermare che una ricerca è valida se i risultati a cui approda sono esatti, cioè se rispecchiano l'effettiva realtà delle cose.

Bisogna però distinguere tra "validità interna" e "validità esterna”.

>Si parla di validità interna quando le conclusioni di una ricerca sono valide almeno all'interno dell'ambito in cui è stata condotta. Perché ciò si verifichi non è sufficiente che siano impiegati strumenti validi, ma occorre anche che sia adeguata la condotta del ricercatore e che i risultati siano stati registrati correttamente.

> Si parla invece di validità esterna quando i risultati di una ricerca si possono estendere a situazioni diverse da quella in cui è stata condotta. Il problema si pone soprattutto per gli studi fatti in laboratorio: condurre un esperimento o predisporre un'osservazione in un ambiente artificioso, appositamente predisposto dallo studioso, se da un lato ha il pregio di conferire maggior rigore alla ricerca, dall'altro può produrre conclusioni difficilmente trasferibili nella realtà quotidiana.


5)

Domande 592


 1)

Una teoria può essere definita come un insieme di proposizioni organicamente connesse, dotate di un alto livello di astrazione, proposte per spiegare o dare ragione di determinati fatti empirici.

Una teoria si articola in una o più ipotesi specifiche; un'ipotesi è una supposizione relativa a un determinato fenomeno o ambito di fenomeni, che si colloca a un livello di astrazione minore della teoria e che è formulata in modo da essere empiricamente controllabile.

2)

Si tratta di una questione di fondo, in quanto l'esperimento differisce profondamente dagli altri metodi di ricerca perché chi ne fa uso non si limita a registrare delle informazioni acquisite con tecniche particolari, ma interviene attivamente sulla realtà da indagare, modificando alcune condizioni e rilevando poi gli effetti di tale cambiamento. Questa procedura, isolando determinati fattori all'interno della situazione di ricerca, riduce al minimo il rischio di distorsione dei risultati dovuto all'intervento di variabili estranee; in più consente, a differenza della semplice raccolta empirica dei dati, di cogliere nessi causali tra gli eventi.

3)

Se il ricercatore opta per una procedura non sperimentale, deve decidere quale tecnica di rilevazione dei dati utilizzare, scegliendo la più consona al suo lavoro: Un'osservazione diretta dei soggetti di studio, un'inchiesta su una popolazione condotta tramite interviste o questionario, il ricorso a tecniche di rilevazione indirette come i questionari autodescrittivi o i test.

4)

I dati interessano al ricercatore per via di alcuni aspetti o proprietà che li riguardano (Caratteri)

Distinguiamo caratteri quantitativi (le cui modalità sono quantità, espresse da numeri) e caratteri qualitativi (le cui modalità sono semplici categorie, che non designano una specifica quantità della proprietà in questione).

5)

Spesso però nelle scienze umane lo studioso ha che fare con realtà immateriali, intraducibili in grandezze fisiche: sono tratti psichici e comportamentali, proprietà di individui e di gruppi. In questo caso è necessario che il carattere che si intende rilevare sia definito in modo concreto e puntuale, attraverso la messa a punto di quelli che vengono chiamati gli indicatori, cioè i "dati spia" empiricamente riscontrabili che ci consentono di rilevarne le modalità.

6)

Il complesso delle diverse modalità e delle rispettive frequenze con cui un determinato carattere si manifesta in una popolazione è detto distribuzione di frequenze o distribuzione statistica. Conoscere la frequenza assoluta o relativa di un fenomeno costituisce comunque una necessaria base di partenza per valutarne l'impatto sociale, avanzare spiegazioni o previsioni, suggerire possibili strategie di intervento.

Le distribuzioni statistiche possono essere rappresentate con tabelle oppure tramite grafici, cioè figure che ne rappresentano simbolicamente le caratteristiche.

7)

  1. ·        Si parla di validità interna quando le conclusioni di una ricerca sono valide almeno all'interno dell'ambito in cui è stata condotta. Perché ciò si verifichi non è sufficiente che siano impiegati strumenti validi, ma occorre anche che sia adeguata la condotta del ricercatore e che i risultati siano stati registrati correttamente.
  2. ·        Si parla invece di validità esterna quando i risultati di una ricerca si possono estendere a situazioni diverse da quella in cui è stata condotta. Il problema si pone soprattutto per gli studi fatti in laboratorio: condurre un esperimento o predisporre un'osservazione in un ambiente artificioso, appositamente predisposto dallo studioso, se da un lato ha il pregio di conferire maggior rigore alla ricerca, dall'altro può produrre conclusioni difficilmente trasferibili nella realtà quotidiana.

I concetti chiave della ricerca


Le teorie e le ipotesi

Una teoria può essere definita come un insieme di proposizioni organicamente connesse, dotate di un alto livello di astrazione, proposte per spiegare o dare ragione di determinati fatti empirici.

Una teoria si articola in una o più ipotesi specifiche; un'ipotesi è una supposizione relativa a un determinato fenomeno o ambito di fenomeni, che si colloca a un livello di astrazione minore della teoria e che è formulata in modo da essere empiricamente controllabile.

Se manca la possibilità di un riscontro empirico, l'ipotesi resta una semplice supposizione, per quanto interessante o intrigante; per questo la sua formulazione deve essere tale da indicare indirettamente le esperienze necessarie a controllarne la plausibilità.


I dati empirici e la loro rivelazione

Nella ricerca i "dati" sono le informazioni che il ricercatore si procura tramite procedure di tipo empirico.

Tali procedure si dividono essenzialmente in 2 tipi, sperimentali (cioè basate sull'uso di esperimenti)  e non sperimentali.

Si tratta di una questione di fondo, in quanto l'esperimento differisce profondamente dagli altri metodi di ricerca perché chi ne fa uso non si limita a registrare delle informazioni acquisite con tecniche particolari, ma interviene attivamente sulla realtà da indagare, modificando alcune condizioni e rilevando poi gli effetti di tale cambiamento. Questa procedura, isolando determinati fattori all'interno della situazione di ricerca, riduce al minimo il rischio di distorsione dei risultati dovuto all'intervento di variabili estranee; in più consente, a differenza della semplice raccolta empirica dei dati, di cogliere nessi causali tra gli eventi. Tuttavia il disegno sperimentale non è sempre praticabile: la decisione di isolare determinate condizioni per analizzare in che modo il variare dell'una incida su quello dell'altra, infatti, presuppone che tali variabili siano state riconosciute come significative e importanti, e tale riconoscimento può scaturire spesso solo da ricerche precedenti, condotte con metodi non sperimentali. Inoltre il metodo sperimentale non si presta allo stesso modo per tutti gli ambiti disciplinari: il suo impiego è frequente in psicologia, dove costituisce il metodo principe di ricerca, in psicologia sociale, mentre è difficile farne uso in antropologia e sociologia.

Se il ricercatore opta per una procedura non sperimentale, deve decidere quale tecnica di rilevazione dei dati utilizzare, scegliendo la più consona al suo lavoro: Un'osservazione diretta dei soggetti di studio, un'inchiesta su una popolazione condotta tramite interviste o questionario, il ricorso a tecniche di rilevazione indirette come i questionari autodescrittivi o i test.

 

L'osservazione è una tecnica di ricerca in qualche modo trasversale alle diverse scienze umane, anche per la sua estrema flessibilità e per la sua capacità di essere declinata in forme differenti. In antropologia è diffusa l'osservazione partecipante, in cui lo studioso si mescola ai soggetti osservati; in psicologia si opta spesso per osservazioni di laboratorio, condotte con protocolli rigidi e standardizzati. Altre procedure di ricerca, seppur utilizzabili in varie forme, si abbinano più agevolmente a specifici ambiti disciplinari.

ln sociologia è frequente l'uso di questionari e interviste con cui si conducono inchieste, ossia si interpella una popolazione, cioè un insieme di persone che condividono una certa caratteristica. Se la popolazione è troppo ampia per condurre l'inchiesta in tempi ragionevoli, si fa uso di un campione, cioè di un gruppo di soggetti che ne sia rappresentativo, scelto con procedure di estrazione particolari.

Il test è uno strumento tipicamente usato dagli psicologi, che sondano per suo tramite determinati tratti psichici. I questionari descrittivi, collaudati in psicologia sociale per lo studio degli atteggiamenti, sono oggi usati anche per la misurazione di altri tratti interiori. Non esiste una tecnica in assoluto "migliore" di altre, ma solo la più idonea a una certa situazione, purché ovviamente ne sia fatto un uso metodologicamente corretto.

 

I caratteri e gli indicatori

I dati interessano al ricercatore per via di alcuni aspetti o proprietà che li riguardano: nel linguaggio statistico queste proprietà vengono chiamate caratteri o, con un linguaggio meno preciso ma più intuitivo, "variabili", proprio perché possono variare, cioè assumere stati o valori differenti in soggetti e situazioni diversi.

Distinguiamo caratteri quantitativi (le cui modalità sono quantità, espresse da numeri) e caratteri qualitativi (le cui modalità sono semplici categorie, che non designano una specifica quantità della proprietà in questione). Sono del primo tipo, ad esempio, l'età di una persona, il numero dei componenti di un nucleo familiare, il tempo impiegato a svolgere un determinato compito, mentre sono del secondo tipo lo stato civile, la nazionalità, il titolo di studio ecc.

 

I caratteri quantitativi sono discreti o discontinui se i numeri che ne esprimono le modalità appartengono all'insieme N dei numeri naturali (è il caso dei numeri dei componenti di una famiglia: possono essere 2, 3, 4, 10 ma mai, 3,5 0 3/8); sono invece continui se le loro modalità appartengono all'insieme R dei numeri reali (il tempo impiegato per svolgere un compito).

Tra i caratteri qualitativi, sono ordinabili quelli le cui modalità possono essere disposte in un ordine gerarchico (il titolo di studio), sono non ordinabili invece quelli in cui tale ordine non esiste (è il caso della nazionalità o dello stato civile)

La nazionalità o lo stato civile di una persona, la sua età, la sua professione, il numero di fratelli che ha o il tempo che impiega a compiere un certa azione sono realtà che chiunque, anche senza una specifica professionalità, può facilmente ricavare.

 

Spesso però nelle scienze umane lo studioso ha che fare con realtà immateriali, intraducibili in grandezze fisiche: sono tratti psichici e comportamentali, proprietà di individui e di gruppi. In questo caso è necessario che il carattere che si intende rilevare sia definito in modo concreto e puntuale, attraverso la messa a punto di quelli che vengono chiamati gli indicatori, cioè i "dati spia" empiricamente riscontrabili che ci consentono di rilevarne le modalità. Durkheim, nel suo studio sul suicidio, scompone il carattere "integrazione sociale" nelle 3 dimensioni dell'integrazione politica, religiosa e domestica, specificando quindi gli indicatori empirici che definiscono ciascuna delle componenti.

 

 

Gli strumenti statici

La statistica è la scienza che si serve di metodi matematici per l'analisi e l'elaborazione di dati relativi a fenomeni collettivi, al fine di trarne conclusioni fondate e rilevanti. Le scienze umane, così come la meteorologia, la medicina, l'economia, ne fanno sistematicamente uso.

 

L'operazione di tradurre in numeri l'oggetto della propria ricerca può essere compiuta in più contesti e a diversi livelli.

Questa operazione si chiama "misurazione di frequenza": ciò che possiamo misurare è la frequenza assoluta, quante volte effettivamente una certa modalità compare, e frequenza relativa, il rapporto tra la frequenza assoluta e il numero totale delle rilevazioni effettuate.

Il complesso delle diverse modalità e delle rispettive frequenze con cui un determinato carattere si manifesta in una popolazione è detto distribuzione di frequenze o distribuzione statistica. Conoscere la frequenza assoluta o relativa di un fenomeno costituisce comunque una necessaria base di partenza per valutarne l'impatto sociale, avanzare spiegazioni o previsioni, suggerire possibili strategie di intervento.

Le distribuzioni statistiche possono essere rappresentate con tabelle oppure tramite grafici, cioè figure che ne rappresentano simbolicamente le caratteristiche.

 

 

La validità della ricerca

Per lo studioso che conduce una ricerca è importante avere la certezza che essa risponda a requisiti di "validità". Questo concetto si specifica in due ulteriori questioni: la validità degli strumenti impiegati e quella dei risultati a cui si approda.

 

Uno strumento è valido se misura effettivamente, e in modo preciso, ciò che intende rilevare.

In psicologia, ad esempio, da un test per la misurazione dell'intelligenza ci si aspetta che misuri effettivamente ciò che intende rilevare - il quoziente intellettivo dell'individuo — e non altre caratteristiche, come la creatività o l'attitudine a svolgere un determinato compito; da un questionario predisposto per un'inchiesta sulla pratica religiosa all'interno di una determinata popolazione, ci si attende che dia informazioni su quello specifico fattore che intendiamo indagare, e non su altri. Tuttavia è pur vero che, soprattutto in sociologia, può capitare che uno strumento predisposto per rilevare un certo fattore possa dare informazioni supplementari e impreviste su altri aspetti del fenomeno.

 

Nel 1972 gli studiosi statunitensi Morris Rosenberg e Roberta Simmons interpellarono un gruppo di studenti di Baltimora per conoscere la loro posizione nei confronti delle persone di colore. I dati emersi dalla loro inchiesta contenevano però molte informazioni supplementari di ordine socio-demografico Su tale materiale lavorarono alcuni anni dopo altri due studiosi, Janet e Larry Hunt, studiando in particolare il rapporto tra l'assenza della figura paterna in famiglia e la socializzazione delle ragazze ai ruoli femminili.

 

Se si parla dei risultati ottenuti, possiamo banalmente affermare che una ricerca è valida se i risultati a cui approda sono esatti, cioè se rispecchiano l'effettiva realtà delle cose.

 

Bisogna però distinguere tra "validità interna" e "validità esterna”.

 

  1. ·        Si parla di validità interna quando le conclusioni di una ricerca sono valide almeno all'interno dell'ambito in cui è stata condotta. Perché ciò si verifichi non è sufficiente che siano impiegati strumenti validi, ma occorre anche che sia adeguata la condotta del ricercatore e che i risultati siano stati registrati correttamente.
  2. ·        Si parla invece di validità esterna quando i risultati di una ricerca si possono estendere a situazioni diverse da quella in cui è stata condotta. Il problema si pone soprattutto per gli studi fatti in laboratorio: condurre un esperimento o predisporre un'osservazione in un ambiente artificioso, appositamente predisposto dallo studioso, se da un lato ha il pregio di conferire maggior rigore alla ricerca, dall'altro può produrre conclusioni difficilmente trasferibili nella realtà quotidiana.
  3.  

 


Sociologia: gli intelletuali di fronte alla cultura di massa

 

Sociologia: gli intellettuali di fronte alla cultura di massa

Apocalittici o Integrati


?

Quali sono state, di fronte alle dinamiche culturali della società di massa, le reazioni della "cultura alta", intendendo con questa espressione una realtà abbastanza variegata, composta sia dai soggetti depositari delle forme tradizionali del sapere e delle modalità di comunicazione che lo veicolano (letterati, filosofi, artisti, intellettuali in genere), sia dalle istituzioni sociali deputate alla trasmissione della cultura e della conoscenza (scuola, università)?

Un'importante distinzione è stata introdotta da Umberto Eco nel 1964: quella tra apocalittici e integrati.

Nel linguaggio di Eco, "apocalittici" sono quegli intellettuali per nulla disposti a venire a patti con la cultura di massa, strenui difensori di una concezione aristocratica del sapere. L'intellettuale apocalittico disprezza le letture poco impegnate, i rotocalchi, i programmi televisivi e radiofonici, ma soprattutto non accetta l'idea che la cultura o, in generale, la conoscenza possano essere patrimonio di molti. 

Per l'apocalittico la cultura di massa è "anticultura": in questo senso il suo atteggiamento di rifiuto è rivolto, a ben guardare, alla società di massa e a ciò che essa rappresenta a livello politico e/o ideologico.

Per converso, gli "integrati" sono convinti che la civiltà di massa consenta un allargamento della base sociale della cultura e che produca un sapere che forse per la prima volta nella storia è davvero universale, condivisibile da tutti i membri di una società.

Questo costituisce, a giudizio dell'intellettuale integrato, una risposta sufficiente a tutte e critiche che si possano muovere alla cultura di massa. 

Ma l'integrato non si limita a difendere o a giustificare la società di massa e la sua cultura in linea teorica, ma ne utilizza anche gli strumenti, servendosi dei mass media e scrivendo libri divulgativi, oppure non disdegnando né i canali radiofonici e televisivi, né la rete per farsi conoscere.

Apocalittici e integrati sono naturalmente due idealtipi: la posizione concreta del singolo intellettuale è spesso una commistione di questi due atteggiamenti, che talvolta tende a inclinare maggiormente verso l'uno o verso l'altro. La contrapposizione ha comunque una validità euristica, in quanto identifica due visioni diverse, in un certo senso alternative, della cultura e del suo ruolo all'interno della società.

Le prime reazioni contro la società di massa

Già a cavallo tra Ottocento e Novecento, filosofi come Friedrich Nietzsche e psicosociologi come Gustave Le Bon espressero la loro preoccupazione rispetto alla crescente rilevanza sociale delle "masse", da loro intese come moltitudini sprovviste di autonomia intellettuale e facilmente manipolabili dall'esterno, incapaci di fare valere altre prerogative se non quella della consistenza numerica. 

Una possibile definizione della "massa" in opposizione ad altre forme di aggregazione si trova nel saggio Massa, pubblico e pubblica opinione del sociologo statunitense


Herbert Blumer. Secondo Blumer, mentre il pubblico è un gruppo di persone che si costituisce intorno a un determinato tema o problema, e che apre un dibattito per confrontare le diverse idee su come affrontarlo, la massa è un aggregato eterogeneo, privo di autocoscienza e di identità, incapace di organizzazione collettiva. Per la distanza spaziale che intercorre tra i suoi membri e la condizione di anonimato che caratterizza ognuno di essi, la massa si distingue anche dalla folla, con la quale condivide invece l'assenza di strutturazione e la condotta non razionale. 

Se il pubblico può formarsi un'opinione mediante il confronto delle prospettive individuali, la massa può solo accoglierla passivamente: non esiste infatti una vera e propria interazione tra i singoli soggetti, ma solo la relazione che collega ognuno di loro, isolato dagli altri, con l'informazione ricevuta grazie ai mezzi di comunicazione.


La disamina forse più spietata della società di massa, vista come decadenza inesorabile della civiltà occidentale, si trova nel saggio La ribellione delle masse del filosofo spagnolo José Ortega y Gasset. In quest'opera lo studioso, preoccupato di spiegare la deriva populistica della storia europea di inizio Novecento (che si esprime, a suo giudizio, sia nel proliferare dei regimi totalitari sia nella nascita del sindacalismo), cerca di individuare il "tipo umano" a essa corrispondente e lo identifica nell'uomomassa figlio della civiltà industriale, privo di valori e di memoria storica, preoccupato solo di difendere il proprio benessere materiale. 
Si noti che la "massa" a cui si riferisce Ortega non si identifica con le classi popolari, ma costituisce una realtà trasversale al corpo sociale, nata da quell'appiattimento generale delle condizioni e delle idee che, nelle società occidentali contemporanee, omogeneizza gli uomini al di là delle tradizionali distinzioni di nascita, ceto, censo e così via.

 

Le analisi dell'industria culturale nel secondo dopoguerra

Nel secondo dopoguerra, ovvero con l'esplosione della società di massa, le riflessioni sulle sue caratteristiche, e in particolare sui modelli culturali in essa imperanti, si fanno più approfondite.

Nel 1947 Theodor Adorno e Max Horkheimer, esponenti della Scuola di Francoforte, scrivono a quattro mani il saggio intitolato Dialettica dell'Illuminismo, un testo volto a indagare le degenerazioni del razionalismo occidentale - di cui l'Illuminismo settecentesco è figura emblematica — nella moderna società industriale. Secondo gli autori la ragione novecentesca non è più, come nei secoli passati, lo strumento di dominio della natura, ma si è trasformata in un organo di controllo e di asservimento degli esseri umani, piegati alle esigenze del sistema politico ed economico di cui fanno parte.

È proprio in questo contesto che i due filosofi introducono - per la prima volta nella storia del pensiero — il concetto di "industria culturale", caricando però tale espressione di un'accezione fortemente negativa: essi intendono infatti riferirsi al complesso dei prodotti e delle strategie di distribuzione nati dalla colonizzazione economica della sfera culturale, ovvero a quel fenomeno tipico della società industriale avanzata che finisce per asservire la cultura a scopi che le sono estranei: controllo sociale, cattura del consenso, promozione di stili e modelli di vita funzionali a una civiltà consumistica. 

L'industria culturale — proseguono Adorno e Horkheimer - si avvale soprattutto dei canali della comunicazione di massa (giornali, tv, cinema) e mette sul mercato prodotti standardizzati, qualitativamente mediocri, costruiti in modo da impoverire nel consumatore l'immaginazione e il senso critico, lasciandogli però l'illusione di essere sovrano delle sue scelte e dei suoi gusti. 

Benché l'industria culturale sia un fenomeno tipico della società di massa, per Adorno e Horkheimer essa non può essere definita "cultura di massa": questo appellativo genererebbe infatti l'erronea convinzione che si tratti di qualcosa che scaturisce in modo spontaneo dalle masse stesse, in opposizione alla cultura d'élite. L'individuo della società di massa, invece, è decisamente eterodiretto (ovvero "diretto da altri", dall'aggettivo greco éteros, "altro"), soggetto passivo di una cultura che non è lui a elaborare, ma che piuttosto lo "crea" a misura dei propri imperativi e valori.

Un ridimensionamento della posizione fortemente pessimistica dei Francofortesi viene da parte del filosofo e sociologo francese Edgar Morin con il saggio del 1962 L'esprit du temps  (Lo spirito del tempo), comparso nella prima traduzione italiana con il titolo L'industria culturale.

Morin parte dall'assunto secondo il quale la cultura di massa va compresa, più che demonizzata: per questo motivo non deve essere analizzata con le chiavi di lettura della cultura "alta", tradizionale, ma letta "dall'interno", come parte integrante della società in cui viviamo. "Cultura", sostiene Morin, è un termine relativo; in ogni società coesistono più culture: la cultura nazionale, la cultura religiosa, la cultura umanistica, ciascuna delle quali costituisce un corpus di simboli, miti e norme che orientano la vita e il pensiero delle persone. Anche la cultura di massa rientra in questo contesto e interagisce con le altre culture: essa può dunque accogliere in sé i loro elementi, ma anche permearle dei propri contenuti fino al punto di modificarle e corroderle.

Benché la cultura di massa non sia l'unica cultura del XX secolo, tuttavia secondo Morin essa ha una prerogativa peculiare: è per sua natura cosmopolita e planetaria, e in questo senso si presenta come qualcosa di radicalmente nuovo rispetto a tutte le altre, ovvero come la prima cultura veramente "universale" nella storia dell'umanità. 

 

Sociologia: l'industria culturale nella società di massa

 

Una nuova realtà storico sociale

Il primo di questi fattori è sicuramente l'allargamento della sfera dei consumatori, conseguente al miglioramento delle condizioni economiche delle classi popolari e al diffondersi di stili di vita basati sul godimento e sulla fruizione di beni e prodotti diversi. La disponibilità di redditi più alti, unita allo spirito di emulazione nei confronti dei ceti socialmente più elevati, spinge fin dai primi decenni del Novecento anche fasce di popolazione fino ad allora estromesse dai circuiti del consumo culturale a riempire non solo la dispensa o il guardaroba, ma anche gli scaffali della libreria, acquistando libri, riviste, dischi e altri prodotti di questo genere.

A ciò va aggiunta l'accresciuta scolarizzazione della società, che fornisce a un numero sempre più ampio di individui gli strumenti di base e gli stimoli intellettuali per accedere ai consumi culturali. Ma l'incremento della scolarizzazione influisce sulla trasformazione dell'industria culturale anche per altre vie, e cioè: 

  1. creando lo specifico settore dell'editoria dei testi scolastici; 
  2. ritardando l'ingresso dei ragazzi e delle ragazze nel mondo del lavoro, contribuendo così indirettamente a creare la figura sociale del "giovane", specifico target del sistema produttivo anche per quel che riguarda il settore dei consumi culturali.

Un altro fattore importante da considerare è l'accresciuta centralità delle masse popolari come soggetto politico. La conquista del suffragio elettorale universale in quasi tutti i paesi dell'Occidente e i traguardi raggiunti dal proletariato urbano grazie alle grandi manifestazioni di piazza che lo vedono protagonista costringono i governi dei vari Stati a confrontarsi con questo nuovo soggetto politico e sociale. 

Per i regimi dittatoriali come per le democrazie diventa pertanto fondamentale la ricerca del consenso, ovvero la conquista dell'appoggio delle masse popolari al fine di catturarne il voto e di prevenirne l'opposizione. Giornali, libri e film diventano così importanti strumenti di propaganda politica, soprattutto presso i sistemi totalitari. Anche i nuovi media come la radio e la televisione, che nascono in questo secolo, svolgono un importante ruolo in tal senso: l'industria culturale diventa il veicolo privilegiato per la trasmissione delle idee e il suo contributo si fa fondamentale per la gestione del potere.

Per designare il tipo di società che nasce grazie a questi mutamenti si è soliti parlare di società di massa e, corrispondentemente, di "cultura di massa": due espressioni in cui, l'aspetto puramente denotativo cede spesso volentieri il campo a interpretazioni ideologiche e a giudizi di valore.

 

I nuovi percorsi dell'editoria

Il settore dell'editoria conosce nella società di massa una crescita senza precedenti, e in una pluralità di direzioni.

L'industria del libro si arricchisce di nuovi generi e proposte: l'idea di fondo è quella di confezionare prodotti ad hoc per ogni utenza e situazione, venendo incontro ai bisogni del pubblico e anzi precorrendone e orientandone le richieste. Nasce così una letteratura per bambini, per ragazzi, per signore ecc.; si pubblicano libri di cucina, di fotografia, di sport, guide turistiche, manuali di ricamo o di bricolage, saggi su temi di politica e di costume. Al potenziale acquirente che entra in una libreria viene proposta un'offerta sempre più ampia e differenziata di prodotti, simile a quella che caratterizza un negozio di capi di abbigliamento.

Parallelamente, vengono divulgate le grandi opere della letteratura in edizione tascabile e i nuovi volumi, di dimensioni contenute ed economicamente più accessibili, vengono talora offerti come supplementi dei periodici o dei quotidiani.

Anche la lettura come pratica sociale si trasforma: spesso non è più un momento di incontro con un autore e con il suo mondo intellettuale, ma un piacevole passatempo che si può "consumare" anche in situazioni di totale relax; e analogamente si trasforma il libro, che si offre come oggetto collocabile a metà strada tra lo "scrigno", colmo di oggetti tra i quali curiosare, e il "formulario magico", che contiene una risposta pronta per ogni necessità: dal suggerimento dell'isola su cui andare in vacanza a quello delle erbe medicinali che possono curare la depressione.

La pratica della lettura conosce però nel corso del XX secolo anche nuove strade, che non portano al libro, ma ad altri prodotti editoriali: giornali, riviste, fumetti, ma anche fascicoli e dépliant, tutti legati allo sviluppo delle comunicazioni di massa. Anche in questo ambito si assiste a un processo di "segmentazione" dell'utenza: si pubblicano riviste per Un'utenza femminile, per l'infanzia e per molteplici fasce specifiche di lettori, come gli appassionati di sport o di motori.

La possibilità, grazie alle evoluzioni tecnologiche, di introdurre fotografie all'interno della pagina stampata favorisce inoltre la nascita di un nuovo tipo di rivista, il rotocalco, che, prevalentemente incentrato su temi di attualità, stabilisce una sorta di sinergia tra diverse forme di comunicazione di massa: le pagine delle riviste presentano infatti anche immagini di personaggi del cinema e della TV, contribuendo alla loro consacrazione nell'immaginario collettivo.

Le nuove pubblicazioni favoriscono poi lo "sdoganamento" di argomenti tradizionalmente tabù: il sesso fa capolino sulle copertine dei giornali attraverso i corpi poco vestiti di bellissime dive dello spettacolo. Vera icona di questo genere è la rivista "Playboy", che esce per la prima volta nel 1953 con le foto di Marilyn Monroe, la più rappresentativa sex symbol del momento.

A partire dal secondo dopoguerra, molte riviste italiane cominciano a ospitare un nuovo genere di intrattenimento: i fotoromanzi, racconti narrati attraverso sequenze di fotografie corredate da didascalie e balloons, interpretati da attori e attrici professionisti. Rivolto prevalentemente a un pubblico femminile di estrazione sociale medio-bassa, il fotoromanzo presenta i tipici contenuti del romanzo rosa: amore contrastato, incomprensione, tradimento, sofferenza e riscatto, e l'immancabile lieto fine.

Il successo riscosso da questo nuovo genere induce gli editori a utilizzarlo anche per altri scopi: alcuni settimanali cattolici, ad esempio, scelgono di raccontare in forma di fotoromanzo le vite dei santi o le grandi opere della letteratura mondiale.

 

La cultura della TV 

La fisionomia peculiare che l'industria culturale assume nel Novecento scaturisce però soprattutto dalle trasformazioni che in quel periodo investono il mondo delle comunicazioni di massa. La nascita di nuovi media (la radio e la televisione, ma soprattutto i nuovi strumenti prodotti dalla rivoluzione informatica) e la definitiva consacrazione di media già esistenti finiscono per generare quel l'identificazione tra cultura e comunicazione che è forse il tratto più tipico della società di massa, nel senso che il sistema di conoscenze, di simboli, di credenze condivise che la identificano passa attraverso i canali della comunicazione di massa.

La TV è forse l'icona più rappresentativa di questo nuovo assetto. La sua nascita come strumento di comunicazione di massa risale al periodo tra le due guerre mondiali, quando sia in Europa sia negli Stati uniti vengono inaugurate le prime tecniche di trasmissione a distanza di contenuti visivi e sonori. Negli anni successivi, quando il nuovo medium si diffonderà nei principali paesi industrializzati, Gran Bretagna e Stati uniti costituiranno i due modelli di riferimento per la definizione della sua funzione sociale: servizio pubblico gestito direttamente dallo Stato (sul modello della britannica BBC) o impresa affidata alla libera iniziativa privata e finanziata dagli introiti pubblicitari, come le molteplici emittenti via cavo presenti sul territorio statunitense.

In Italia, dove le prime trasmissioni televisive cominciano nel gennaio 1954, si afferma decisamente il primo modello, legato all'idea secondo cui la deve avere 3 scopi fondamentali: istruire, educare, divertire. Solo alla fine degli anni Settanta, quando una sentenza della Corte costituzionale decreta la fine del monopolio radiotelevisivo di Stato, nascono le prime televisioni private, create da editori, giornalisti, imprenditori.

Per comprendere il ruolo progressivamente assunto dalla televisione all'interno dell'industria culturale è utile ricorrere a una distinzione introdotta dal noto studioso italiano Umberto Eco, e accolta da molti studiosi di mass media: quella tra paleotelevisione (la "vecchia" tv) e neotelevisione (la "nuova' tv).

 

Eco introduce questa distinzione in riferimento alla televisione italiana, ma le sue riflessioni possono riferirsi, più in generale, all'evoluzione storica del mezzo televisivo.

La paleotelevisione è la TV delle origini: essa si caratterizza per mezzi tecnici ancora modesti (le immagini sono in bianco e nero) e un palinsesto limitato sia quantitativamente sia qualitativamente (le ore di trasmissione sono contenute e i programmi sono imperniati su 3 generi: cultura, informazione, divertimento). Soprattutto, la paleotelevisione è effettivamente un medium, cioè un mezzo che mette in rapporto lo spettatore con ciò che viene trasmesso: un fatto di cronaca, uno spettacolo, un dibattito politico o culturale.



Nella neotelevisione - che nasce con il diffondersi delle emittenti private, ma pervade ben presto lo stesso servizio pubblico - si assiste a un radicale stravolgimento di questo assetto: si dilata la giornata televisiva, con un flusso continuo di programmi che coprono le 24 ore; i 3 generi della w tradizionale si riducono progressivamente a uno solo, un misto di informazione e divertimento definito da alcuni studiosi infotainment (dall'inglese information + entertainment). Inoltre, ed è questa forse la trasformazione decisiva, la neotelevisione parla praticamente solo di se stessa: da strumento di informazione su una "realtà" che si presume autonomamente esistente, essa diventa fonte di realtà.



Nella neotelevisione, sia pubblica sia privata, la principale risorsa economica è la pubblicità nelle sue varie forme: spot, sponsorizzazione di programmi, televendite. La centralità del ruolo economico delle aziende, che acquistando spazi pubblicitari garantiscono la sopravvivenza della rete, si ripercuote sul rapporto televisione-spettatore; quest'ultimo è visto non più come un cittadino da informare, ma come un consumatore da blandire e lusingare allo scopo di conquistarne la fiducia.

Pag 424 Domande

1)
a) F
b) V
c) F
d) V
e) V

2)
a) D
b) B
c) C

3)
a) Rotocalco
b) Apocalittico
c) Infotainment

4.

a) George Melies e David Griffith furono i primi ad utilizzare il cinema come strumento di comunicazione e di intrattenimento sociale invece di impiegarlo unicamente per scopi documentaristici. Fu infatti grazie a Milier che il cinema diventò messa in scena di situazioni fantastiche, con il suo film "Il viaggio nella luna". Dobbiamo invece a Griffith la consapevolezza del potenziale ideologico e pedagogico-sociale del cinema.

b) I sociologi Theodor Adorno e Max Horkheimer furono i primi ad utilizzare il termine di "industria culturale", riferendosi ala complesso dei prodotti e delle strategie di distribuzione nati dalla colonizzazione economico della sfera culturale, che finiscono per asservire alla cultura scopi quali il controllo sociale, la cattura del consenso e la promozione di stili e modelli di vita adatti ad una società consumistica.

5.

All'interno della società di massa, l'industria culturale agisce una vera e propria "colonizzazione" della vita quotidiana: essa costituisce il "sottofondo" dell'esperienza quotidiana di ogni individuo. Per esempio, la musica può essere ascoltata ovunque, si possono guardare film anche all'interno delle mura casalinghe grazie alla televisione e la fotografia può essere praticata come pratica amatoriale da chiunque possegga una telecamera. Questa colonizzazione è resa possibile anche da una nuova sinergia tra i vari ambiti della cultura: fotografia e stampa, radio e musica, non esistono quasi più separate le une dalle altre. Avviene inoltre che i generi "trapassino" da un settore all'altro. Per fare un esempio, esistono libri di fantascienza, ma anche fumetti e film. 
Un'altra caratteristica peculiare dell'industria culturale all'interno della società di massa è il costituirsi di una sorta di "mitologia", in cui l'olimpo è composto dal mondo dello spettacolo e gli Dei sono i divi dello spettacolo, quali cantanti, atleti, attori, ma anche scienziati e politici, privati delle loro caratteristiche particolari e resi oggetti di interesse pubblico (si parla dei loro viaggi, matrimoni, ...). Il sociologo francese Edgar Morin giustifica lo sviluppo di questa cosiddetta mitologia affermando che, così come ogni altra cultura, la cultura di massa ha sviluppato la propria mitologia.
Si teorizza inoltre che questo processo di "divinizzazione" sia composto da due "spinte" complementari: la prima, suggerita da Umberto Eco e denominata "riduzione all'everyman", afferma che la gente semplicemente ama riconoscersi nei personaggi dello spettacoli, notare di avere qualcosa in comune con loro. A questa si aggiunge il fatto che gli stessi personaggi danno corpo ad aspirazioni che la gente comune non può realizzare, e ciò causa invidia ma anche ammirazione. 

Pag 403 e 416 Domande

 Pag. 406

1)

Con l'espressione industria culturale indichiamo il complesso dei soggetti e delle attività economiche che, nella società industriale avanzata, si occupano della produzione e della distribuzione di beni e servizi culturali. L'industria culturale copre dunque ambiti della vita sociale che appartengono alla nostra percezione abituale della realtà e con i quali, grazie a determinate esperienze di consumo, veniamo frequentemente in contatto: il mondo dell'editoria, le case discografiche, l'industria cinematografica, i mezzi di comunicazione di massa. Parole come "industria" e "cultura" ricorrono con una certa frequenza nei nostri discorsi, e con un significato tutto sommato piuttosto definito:

quando parliamo di 'industria" abbiamo in mente il complesso delle attività produttive che trasformano le materie prime in merci di consumo. Si tratta di un fenomeno che, a partire dal XVIII secolo circa, avviene grazie all'investimento di ingenti capitali e all'uso di macchinari che permettono la realizzazione in serie di una grande quantità di prodotti; 

quanto al termine "cultura", al di là della rilettura articolata che ne ha dato l'antropologia, l'accezione principale con cui esso ricorre nel linguaggio quotidiano è quella di tipo classico-umanistico: cultura è il complesso delle esperienze intellettuali di una civiltà, depositato nelle opere letterarie, musicali, artistiche, nelle teorie scientifiche e filosofiche, e in generale nell'insieme di idee e simboli che formano l'universo del sapere.

2)

Il 3 settembre 1833, a New York, una nuova presenza si aggira per le strade della città. Sono gli "strilloni", ragazzetti incaricati di vendere ai passanti il "New York Sun", edito da Benjamin Henry Day, Il prezzo modico (1 penny ogni copia) e lo slogan accattivante con cui il giornale si presenta, «it shines for all» ("splende per tutti) mostrano la chiara volontà dell'editore di raggiungere il pubblico più ampio possibile Siamo di fronte a una vera e propria rivoluzione culturale. Il modello della stampa popolare fece ben presto la sua comparsa anche oltre oceano. Nel 1836, a Parigi, il giornalista e uomo politico Émile de Girardin fondò un nuovo giornale, "La Presse", di cui riuscì a dimezzare il prezzo di abbonamento con un espediente destinato ad avere nei decenni successivi un grande successo: l'inserzione di annunci pubblicitari.

3)

La stampa tardottocentesca è anche il veicolo di una nuova forma di comunicazione, destinata a diventare negli anni successivi un prodotto chiave dell'industria culturale: il fumetto. 

Grazie all'intraprendenza di un direttore cli giornali statunitense, Joseph Pulitzer, intenzionato a incrementare le vendite domenicali del quotidiano "New York World", il 5 maggio 1895 un giovane disegnatore dell'Ohio, Richard Outcault, presenta per la prima volta una serie di storielle umoristiche ambientate in un vicolo degli slums newyorkesi. Il personaggio principale dei vari racconti è The Yellow Kid, un buffo ragazzino vestito con un lungo camicione giallo, sul quale sono riportate frasi e battute relative alle vicende narrate, che solo in un secondo tempo il disegnatore affiderà ai balloons, cioè alle caratteristiche "nuvolette".

4)

Già negli anni Venti dell'Ottocento, lo scienziato francese Joseph Nicéphore Niépce inizia i suoi esperimenti sulla possibilità di imprimere immagini su una lastra sfruttando solo la luce, senza ricorrere a un'incisione. Da questi studi nascerà una delle invenzioni più stupefacenti della storia umana: la fotografia. La fotografia nasce come strumento di raffigurazione di paesaggi, soprattutto urbani, e di strutture architettoniche. Con il tempo, però, essa finisce per ritrarre anche soggetti umani. Fotografare e farsi fotografare diventano modi per realizzare altrettante modalità di vita sociale: davanti all'obiettivo sfilano intere famiglie, ma anche singoli individui di varie condizioni sociali che sperimentano per la prima volta l'onore del "ritratto" e persone che vengono colte nello svolgimento delle loro professioni. In un contesto storico-sociale caratterizzato da frequenti movimenti migratori e dalla frammentazione dei nuclei familiari, l’immagine fotografica diventa cosìí il simbolo del mantenimento dei legami affettivi. Anche in questi usi apparentemente intimi, personali, la fotografia è però un'immagine pubblica, di rappresentanza sociale: "cristallizza" le persone così come esse - o il fotografo per loro — desiderano venire percepite, ricordate, considerate. 

La parola “cinematografia significa letteralmente “scrittura del movimento” (a differenza dei libri è mobile)

L'utilizzo del cinema come strumento di comunicazione, di intrattenimento sociale nacque grazie all'opera di due pionieri: George Melies e David Griffith. Con il primo la ripresa cinematografica cessò di essere mera documentazione dell'esistente per diventare messa in scena di situazioni fantastiche. Dobbiamo invece a Griffith la grammatica del cinema. Con loro il cinema divenne una vera e propria forma di spettacolo, cioè di “ri-creazione” della realtà attraverso la messa in scena, in quanto la tecnica di ripresa e di proiezione cinematografica offriva risorse espressive fino a quel momento sconosciute: cambiando inquadratura si poteva ad esempio avvicinare e allontanare gli oggetti creando così illusioni di situazioni differenti e diversamente interpretabili.

5) 

Nella sua opera “Il mondo come volontà e rappresentazione” il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer, all'interno di una riflessione sul ruolo dell'arte nell'esistenza umana, dedicò particolare attenzione alla musica, che egli riteneva capace di rivelare “l'essenza intima del mondo”. La posizione di Schopenhauer esprime in qualche modo la suggestione esercitata sugli esseri umani dal suono, generata soprattutto dalla sua impalpabilità: diversamente da una poesia o da un dipinto, che esistono concretamente (come pagina scritta o come tela) anche nel momento in cui non li si legge o non li si guarda, un brano musicale "esiste" veramente solo durante la sua esecuzione. Proprio questo tratto della musica generò forse il desiderio di "riprodurla" mediante strumenti che ne consentissero l'ascolto anche in assenza dei suoi esecutori diretti.

Pag. 419

L' “apocalittico” è un intellettuale che non viene a patti con la cultura di massa e che si propone come difensore di una concezione aristocratica del sapere. L' “integrato” è invece un intellettuale disposto ad accettare la cultura di massa e ad utilizzarne gli strumenti.

Tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, vari studiosi tra cui filosofi (Nietzsche), psicologi (Gustave Le Bon) e sociologi, espressero la loro preoccupazione riguardo alla crescente rilevanza sociale delle “masse”, definite “moltitudini sprovviste di autonomia intellettuale e facilmente manipolabili”. Il sociologo statunitense Herbert Blumer mette a confronto i concetti di “pubblico” e di “massa”. Il primo sarebbe un gruppo di persone costituito intorno ad un determinato tema che apre un dibattito per confrontare idee diverse e giungere ad una soluzione, mentre una massa è niente di più che un aggregato eterogeneo di persone che, a causa della distanza spaziale tra i membri, privo di autocoscienze e di un'identità e incapace di seguire una condotta razionale.

I sociologi Theodor Adorno e Max Horkheimer introdussero, a metà del '900, con un'accezione fortemente negativa, il concetto di “industria culturale”. Il termine si riferisce infatti al complesso dei prodotti e delle strategie di distribuzione nati dalla colonizzazione economica della sfera culturale, con la promozione di modelli di vita funzionali ad una civiltà consumistica. Essa si serve dei mezzi di comunicazione di massa e immette sul mercato prodotti qualitativamente mediocri, finalizzati ad impoverire il senso critico del consumatore, lasciandogli però l'illusione di essere sovrano delle proprie scelte e dei propri gusti.

 

416

1) La cultura di massa, sviluppatasi nel xix secolo, è un tipo di società caratterizzata dal graduale accesso delle masse popolari alla sfera dei consumi e alle diverse forme di partecipazione politica e culturale.

2) Nella società di massa viene a disposizione un'offerta sempre più ampia e differenziata di prodotti editoriali, differenziati per soddisfare ogni tipo di utenza. Vengono quindi prodotti giornali, riviste, fumetti e fascicoli, ma anche rotocalchi (genere di rivista concentrato su attualità e uno dei primi tentativi di unire immagini e testo) e fotoromanzi (racconti narrati attraverso sequenze fotografiche con didascalie e balloons).

3) “Infotainment” è un'espressione formata dalle parole inglesi “information” e “entertainment”; sta ad indicare il genere televisivo prevalente nella società di massa, che consiste in un misto di informazione e divertimento.

4) Nell'era digitale la cultura e facilmente e velocemente accessibile da tutti in qualsiasi momento. Computer, e-book e cellulari hanno, in alcuni casi, sostituito i libri, rendendo la lettura di libri più “comoda”, ma con una conseguente perdita del valore affettivo legato al testo fisico. Esiste in oltre il rischio che le informazioni di cui si viene in possesso possano non essere completamente corretto: data l'immensa disponibilità di materiale su internet, l'utente difficilmente riesce a trovare informazioni attendibili, proprio a causa dell'enorme quantità di informazioni presente. Questo fenomeno è detto “information overload”.






I meccanismi dell’ esclusione sociale: la devianza

 I meccanismi dell’ esclusinone sociale: La devianza

La devianza si configura come la forma più acuta di conflittualità sociale, con questo termine i sociologi intendono ogni comportamento non conforme alle norme sociali di una società in un determinato momento storico.

 

Questo concetto è più problematico di quanto la sua spiegazione sembri suggerire. Vediamo perché.

In primo luogo il fatto che la normalità, e conseguentemente la devianza, si costituiscano solo in rapporto alla loro definizione sociale ha un'immediata conseguenza: nessun comportamento è di per sé deviante e ciò che appare tale in un certo contesto sociale o un momento storico può non esserlo In altri tempi e luoghi.

Allo stesso tempo, però, il fatto che un certo atto possa apparire “normale” a chi lo compie non ne abolisce il carattere deviante. In secondo luogo, quando parliamo di “norme sociali” ci riferiamo, come sappiamo, a una pluralità di regole di condotta, differenti per tipo di legittimazione e grado di obbligatorietà. La loro violazione, di conseguenza, genera forme molto diverse di devianza, che possono andare dal rifiuto più o meno cosciente delle convinzioni sociali alle forme più efferate di criminalità. L'atto criminale, o reputato tale, costituisce per la società un problema indubbiamente maggiore dei comportamenti stravaganti e anticonformisti delle persone, che comunque destano, per la loro difformità dal comune sentire, l'interesse del sociologo.

Infine, l'esistenza di norme diverse per contenuto e  tipologia sono problemi di “giurisdizione” tra le une e le altre norme. Le usanze e costumi morali non sono ugualmente praticati all'interno della società da tutti i membri, mentre le norme giuridiche, emanate dallo Stato, valgono in modo indifferenziato per tutti gli individui. Può capitare così che un soggetto non appaia "deviante" dal punto di vista dei valori del gruppo sociale a cui appartiene, ma sia considerato tale dal punto di vista della legge o di altri gruppi sociali. 

La sociologia in fronte alla devianza


Nella seconda metà dell'800, in piena cultura positivista, il criminologo Cesare Lombroso ipotizza un'origine biologica della devianza e arrivò al sostenere che i crimini fossero identificabili attraverso precise caratteristiche fisiche, come ad esempio la forma del cranio.

La specificità di un approccio sociologico alla devianza è data dal tentativo di mettere in correlazione l'insorgenza di condotte devianti non già con particolari fattori individuali ma con determinate variabili di natura sociale.É all'interno della scuola di Chicago che nascono i primi studi sul fenomeno della devianza, nella forma di ricerche etnografiche su particolari comunità devianti: I Vagabondi protagonisti di The Hobo e altre opere. In queste opere la condotta deviante viene vista come prodotto di una particolare subcultura, cioè di un complesso di idee, valori,  modelli di comportamento e linguaggi elaborato da un certo gruppo, all'interno del quale l'individuo compie un percorso di socializzazione. I sociologi di Chicago, inoltre, studiarono il rapporto tra le diverse comunità devianti e la configurazione spaziale della vita urbana, mostrando come esse tendessero maggiormente a proliferare in certe aree territoriali piuttosto che altre, precisamente in quelle dove era più la disorganizzazione sociale, cioè dove era più debole l'influsso delle norme della società statunitense convenzionale.

Merton: La devianza come divario tra mezzi e fini sociali

Il sociologo


Robert Merton ha fornito una interpretazione riguardante la devianza. Merton parte dalla constatazione, che all'interno di ogni società, esiste un divario tra gli scopi che vengono proposti ai membri della società stessa e i mezzi effettivamente disponibili per conseguirli. Il comportamento deviante rappresenterebbe quindi un tentativo di appropriarsi delle mete socialmente desiderabili attraverso vie diverse da quelle della legalità, e sarebbe sollecitato dallo scarto tra aspirazioni e possibilità effettive sperimentato dalla maggior parte degli individui. Naturalmente Merton è consapevole che non tutte le persone che avvertono questo scarto mettono in atto comportamenti devianti; esistono Infatti, secondo lo studioso, altre possibilità di reazione individuale a questa divario tra mezzi e fini sociali:

  1. ·         Il conformismo (l’individuo accetta gli scopi sociali,pur sapendo di non poterli conseguire)
  2. ·         il ritualismo (ò’individuo si conforma alle condotte accettate dalla società, ma non crede più ai valori che esssa propone)
  3. ·         la rinuncia (l’individuo rifiuta sia i valori sociali sia i mezzi proposti per raggiungerli)
  4. ·         la ribellione (l’individuo rifiuta scopi e mezzi e combatte attivamente per proporre nuovi valori e nuove condotte di vita)

La teoria di Merton è stata accettata e ripresa anche da altri studiosi. Essa si presta molto bene a spiegare la condotta deviante di individui e gruppi socialmente marginali. Tuttavia i devianti non appartengono soltanto a queste categorie sociali; com’è facilmente constatabile dalle semplici lettere di un quotidiano, i reati e le attività socialmente deprecabili sono “trasversali” a tutte le fasce di popolazione