This is default featured slide 1 title

Blogger edit html and find these sentences.Now replace these sentences with your own descriptions.

This is default featured slide 2 title

Go to Blogger edit html and find these sentences.Now replace these sentences with your own descriptions.

This is default featured slide 3 title

Go to Blogger edit html and find these sentences.Now replace these sentences with your own descriptions.

This is default featured slide 4 title

Go to Blogger edit html and find these sentences.Now replace these sentences with your own descriptions.

This is default featured slide 5 title

Go to Blogger edit html and find these sentences.Now replace these sentences with your own descriptions.

La società dello spettacolo

 

La società dello spettacolo è


un fenomeno che è stato introdotto da Guy Debord. In merito a questo

fenomeno, lui afferma: "Lo spettacolo è la principale produzione della società attuale", e tutta la vita delle

società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un'enorme

accumulazione di spettacoli".

Lui sottolinea l’importanza dell’apparire nella società dello spettacolo, individuando anche una

decadenza dell’essere in avere. Per Debord l'avere cede all'apparire, come l'essere ha fatto con

l'avere. L'avere viene quindi sottoposto all’importanza dell'apparire. In realtà, l'apparire nella

società dello spettacolo si può individuare in due modi: in primo luogo abbiamo l'apparire delle

merci, che serve per aumentare le vendite, e in secondo luogo abbiamo l'apparire degli uomini. In

questo caso l'apparire, che oggi è concentrato sulla visibilità, è necessario ai vantaggi economici,

sociali e politici.

Per concludere questo discorso, per Debord, la realtà è la seguente: l'apparire è in funzione

dell'avere. Questo vuol dire che se l'avere ha sostituito l'essere, lo stesso deve aver fatto anche

l'apparire. Di conseguenza, l'apparire ha sottolineato la divisione tra l'uomo di spettacolo e l'essere

dell'uomo. L'uomo di spettacolo, per quanto riguarda la sua apparenza, è ancora più distante

dall'essenza umana. E per uomo di spettacolo non si intende solo il professionista, il conduttore

televisivo, ecc, ma soprattutto, l'uomo che vive nella società dello spettacolo, "protagonista

inconsapevole" dello show che lo circonda. Questo è quello che in generale afferma Debord.

In seguito abbiamo anche un’affermazione di Jeremy Rifkin, il quale afferma che La società dello

spettacolo si impone anche alla circolazione delle merci trasformando il consumo pagante in

shopping. L'apparire è diventato così il reale modo d'esistere delle masse dell'Occidente.

 

Domande pag 599

 1)

V

F

F

2)

C

3)

Metodo induttivo

4)

Se si parla dei risultati ottenuti, possiamo banalmente affermare che una ricerca è valida se i risultati a cui approda sono esatti, cioè se rispecchiano l'effettiva realtà delle cose.

Bisogna però distinguere tra "validità interna" e "validità esterna”.

>Si parla di validità interna quando le conclusioni di una ricerca sono valide almeno all'interno dell'ambito in cui è stata condotta. Perché ciò si verifichi non è sufficiente che siano impiegati strumenti validi, ma occorre anche che sia adeguata la condotta del ricercatore e che i risultati siano stati registrati correttamente.

> Si parla invece di validità esterna quando i risultati di una ricerca si possono estendere a situazioni diverse da quella in cui è stata condotta. Il problema si pone soprattutto per gli studi fatti in laboratorio: condurre un esperimento o predisporre un'osservazione in un ambiente artificioso, appositamente predisposto dallo studioso, se da un lato ha il pregio di conferire maggior rigore alla ricerca, dall'altro può produrre conclusioni difficilmente trasferibili nella realtà quotidiana.


5)

Domande 592


 1)

Una teoria può essere definita come un insieme di proposizioni organicamente connesse, dotate di un alto livello di astrazione, proposte per spiegare o dare ragione di determinati fatti empirici.

Una teoria si articola in una o più ipotesi specifiche; un'ipotesi è una supposizione relativa a un determinato fenomeno o ambito di fenomeni, che si colloca a un livello di astrazione minore della teoria e che è formulata in modo da essere empiricamente controllabile.

2)

Si tratta di una questione di fondo, in quanto l'esperimento differisce profondamente dagli altri metodi di ricerca perché chi ne fa uso non si limita a registrare delle informazioni acquisite con tecniche particolari, ma interviene attivamente sulla realtà da indagare, modificando alcune condizioni e rilevando poi gli effetti di tale cambiamento. Questa procedura, isolando determinati fattori all'interno della situazione di ricerca, riduce al minimo il rischio di distorsione dei risultati dovuto all'intervento di variabili estranee; in più consente, a differenza della semplice raccolta empirica dei dati, di cogliere nessi causali tra gli eventi.

3)

Se il ricercatore opta per una procedura non sperimentale, deve decidere quale tecnica di rilevazione dei dati utilizzare, scegliendo la più consona al suo lavoro: Un'osservazione diretta dei soggetti di studio, un'inchiesta su una popolazione condotta tramite interviste o questionario, il ricorso a tecniche di rilevazione indirette come i questionari autodescrittivi o i test.

4)

I dati interessano al ricercatore per via di alcuni aspetti o proprietà che li riguardano (Caratteri)

Distinguiamo caratteri quantitativi (le cui modalità sono quantità, espresse da numeri) e caratteri qualitativi (le cui modalità sono semplici categorie, che non designano una specifica quantità della proprietà in questione).

5)

Spesso però nelle scienze umane lo studioso ha che fare con realtà immateriali, intraducibili in grandezze fisiche: sono tratti psichici e comportamentali, proprietà di individui e di gruppi. In questo caso è necessario che il carattere che si intende rilevare sia definito in modo concreto e puntuale, attraverso la messa a punto di quelli che vengono chiamati gli indicatori, cioè i "dati spia" empiricamente riscontrabili che ci consentono di rilevarne le modalità.

6)

Il complesso delle diverse modalità e delle rispettive frequenze con cui un determinato carattere si manifesta in una popolazione è detto distribuzione di frequenze o distribuzione statistica. Conoscere la frequenza assoluta o relativa di un fenomeno costituisce comunque una necessaria base di partenza per valutarne l'impatto sociale, avanzare spiegazioni o previsioni, suggerire possibili strategie di intervento.

Le distribuzioni statistiche possono essere rappresentate con tabelle oppure tramite grafici, cioè figure che ne rappresentano simbolicamente le caratteristiche.

7)

  1. ·        Si parla di validità interna quando le conclusioni di una ricerca sono valide almeno all'interno dell'ambito in cui è stata condotta. Perché ciò si verifichi non è sufficiente che siano impiegati strumenti validi, ma occorre anche che sia adeguata la condotta del ricercatore e che i risultati siano stati registrati correttamente.
  2. ·        Si parla invece di validità esterna quando i risultati di una ricerca si possono estendere a situazioni diverse da quella in cui è stata condotta. Il problema si pone soprattutto per gli studi fatti in laboratorio: condurre un esperimento o predisporre un'osservazione in un ambiente artificioso, appositamente predisposto dallo studioso, se da un lato ha il pregio di conferire maggior rigore alla ricerca, dall'altro può produrre conclusioni difficilmente trasferibili nella realtà quotidiana.

I concetti chiave della ricerca


Le teorie e le ipotesi

Una teoria può essere definita come un insieme di proposizioni organicamente connesse, dotate di un alto livello di astrazione, proposte per spiegare o dare ragione di determinati fatti empirici.

Una teoria si articola in una o più ipotesi specifiche; un'ipotesi è una supposizione relativa a un determinato fenomeno o ambito di fenomeni, che si colloca a un livello di astrazione minore della teoria e che è formulata in modo da essere empiricamente controllabile.

Se manca la possibilità di un riscontro empirico, l'ipotesi resta una semplice supposizione, per quanto interessante o intrigante; per questo la sua formulazione deve essere tale da indicare indirettamente le esperienze necessarie a controllarne la plausibilità.


I dati empirici e la loro rivelazione

Nella ricerca i "dati" sono le informazioni che il ricercatore si procura tramite procedure di tipo empirico.

Tali procedure si dividono essenzialmente in 2 tipi, sperimentali (cioè basate sull'uso di esperimenti)  e non sperimentali.

Si tratta di una questione di fondo, in quanto l'esperimento differisce profondamente dagli altri metodi di ricerca perché chi ne fa uso non si limita a registrare delle informazioni acquisite con tecniche particolari, ma interviene attivamente sulla realtà da indagare, modificando alcune condizioni e rilevando poi gli effetti di tale cambiamento. Questa procedura, isolando determinati fattori all'interno della situazione di ricerca, riduce al minimo il rischio di distorsione dei risultati dovuto all'intervento di variabili estranee; in più consente, a differenza della semplice raccolta empirica dei dati, di cogliere nessi causali tra gli eventi. Tuttavia il disegno sperimentale non è sempre praticabile: la decisione di isolare determinate condizioni per analizzare in che modo il variare dell'una incida su quello dell'altra, infatti, presuppone che tali variabili siano state riconosciute come significative e importanti, e tale riconoscimento può scaturire spesso solo da ricerche precedenti, condotte con metodi non sperimentali. Inoltre il metodo sperimentale non si presta allo stesso modo per tutti gli ambiti disciplinari: il suo impiego è frequente in psicologia, dove costituisce il metodo principe di ricerca, in psicologia sociale, mentre è difficile farne uso in antropologia e sociologia.

Se il ricercatore opta per una procedura non sperimentale, deve decidere quale tecnica di rilevazione dei dati utilizzare, scegliendo la più consona al suo lavoro: Un'osservazione diretta dei soggetti di studio, un'inchiesta su una popolazione condotta tramite interviste o questionario, il ricorso a tecniche di rilevazione indirette come i questionari autodescrittivi o i test.

 

L'osservazione è una tecnica di ricerca in qualche modo trasversale alle diverse scienze umane, anche per la sua estrema flessibilità e per la sua capacità di essere declinata in forme differenti. In antropologia è diffusa l'osservazione partecipante, in cui lo studioso si mescola ai soggetti osservati; in psicologia si opta spesso per osservazioni di laboratorio, condotte con protocolli rigidi e standardizzati. Altre procedure di ricerca, seppur utilizzabili in varie forme, si abbinano più agevolmente a specifici ambiti disciplinari.

ln sociologia è frequente l'uso di questionari e interviste con cui si conducono inchieste, ossia si interpella una popolazione, cioè un insieme di persone che condividono una certa caratteristica. Se la popolazione è troppo ampia per condurre l'inchiesta in tempi ragionevoli, si fa uso di un campione, cioè di un gruppo di soggetti che ne sia rappresentativo, scelto con procedure di estrazione particolari.

Il test è uno strumento tipicamente usato dagli psicologi, che sondano per suo tramite determinati tratti psichici. I questionari descrittivi, collaudati in psicologia sociale per lo studio degli atteggiamenti, sono oggi usati anche per la misurazione di altri tratti interiori. Non esiste una tecnica in assoluto "migliore" di altre, ma solo la più idonea a una certa situazione, purché ovviamente ne sia fatto un uso metodologicamente corretto.

 

I caratteri e gli indicatori

I dati interessano al ricercatore per via di alcuni aspetti o proprietà che li riguardano: nel linguaggio statistico queste proprietà vengono chiamate caratteri o, con un linguaggio meno preciso ma più intuitivo, "variabili", proprio perché possono variare, cioè assumere stati o valori differenti in soggetti e situazioni diversi.

Distinguiamo caratteri quantitativi (le cui modalità sono quantità, espresse da numeri) e caratteri qualitativi (le cui modalità sono semplici categorie, che non designano una specifica quantità della proprietà in questione). Sono del primo tipo, ad esempio, l'età di una persona, il numero dei componenti di un nucleo familiare, il tempo impiegato a svolgere un determinato compito, mentre sono del secondo tipo lo stato civile, la nazionalità, il titolo di studio ecc.

 

I caratteri quantitativi sono discreti o discontinui se i numeri che ne esprimono le modalità appartengono all'insieme N dei numeri naturali (è il caso dei numeri dei componenti di una famiglia: possono essere 2, 3, 4, 10 ma mai, 3,5 0 3/8); sono invece continui se le loro modalità appartengono all'insieme R dei numeri reali (il tempo impiegato per svolgere un compito).

Tra i caratteri qualitativi, sono ordinabili quelli le cui modalità possono essere disposte in un ordine gerarchico (il titolo di studio), sono non ordinabili invece quelli in cui tale ordine non esiste (è il caso della nazionalità o dello stato civile)

La nazionalità o lo stato civile di una persona, la sua età, la sua professione, il numero di fratelli che ha o il tempo che impiega a compiere un certa azione sono realtà che chiunque, anche senza una specifica professionalità, può facilmente ricavare.

 

Spesso però nelle scienze umane lo studioso ha che fare con realtà immateriali, intraducibili in grandezze fisiche: sono tratti psichici e comportamentali, proprietà di individui e di gruppi. In questo caso è necessario che il carattere che si intende rilevare sia definito in modo concreto e puntuale, attraverso la messa a punto di quelli che vengono chiamati gli indicatori, cioè i "dati spia" empiricamente riscontrabili che ci consentono di rilevarne le modalità. Durkheim, nel suo studio sul suicidio, scompone il carattere "integrazione sociale" nelle 3 dimensioni dell'integrazione politica, religiosa e domestica, specificando quindi gli indicatori empirici che definiscono ciascuna delle componenti.

 

 

Gli strumenti statici

La statistica è la scienza che si serve di metodi matematici per l'analisi e l'elaborazione di dati relativi a fenomeni collettivi, al fine di trarne conclusioni fondate e rilevanti. Le scienze umane, così come la meteorologia, la medicina, l'economia, ne fanno sistematicamente uso.

 

L'operazione di tradurre in numeri l'oggetto della propria ricerca può essere compiuta in più contesti e a diversi livelli.

Questa operazione si chiama "misurazione di frequenza": ciò che possiamo misurare è la frequenza assoluta, quante volte effettivamente una certa modalità compare, e frequenza relativa, il rapporto tra la frequenza assoluta e il numero totale delle rilevazioni effettuate.

Il complesso delle diverse modalità e delle rispettive frequenze con cui un determinato carattere si manifesta in una popolazione è detto distribuzione di frequenze o distribuzione statistica. Conoscere la frequenza assoluta o relativa di un fenomeno costituisce comunque una necessaria base di partenza per valutarne l'impatto sociale, avanzare spiegazioni o previsioni, suggerire possibili strategie di intervento.

Le distribuzioni statistiche possono essere rappresentate con tabelle oppure tramite grafici, cioè figure che ne rappresentano simbolicamente le caratteristiche.

 

 

La validità della ricerca

Per lo studioso che conduce una ricerca è importante avere la certezza che essa risponda a requisiti di "validità". Questo concetto si specifica in due ulteriori questioni: la validità degli strumenti impiegati e quella dei risultati a cui si approda.

 

Uno strumento è valido se misura effettivamente, e in modo preciso, ciò che intende rilevare.

In psicologia, ad esempio, da un test per la misurazione dell'intelligenza ci si aspetta che misuri effettivamente ciò che intende rilevare - il quoziente intellettivo dell'individuo — e non altre caratteristiche, come la creatività o l'attitudine a svolgere un determinato compito; da un questionario predisposto per un'inchiesta sulla pratica religiosa all'interno di una determinata popolazione, ci si attende che dia informazioni su quello specifico fattore che intendiamo indagare, e non su altri. Tuttavia è pur vero che, soprattutto in sociologia, può capitare che uno strumento predisposto per rilevare un certo fattore possa dare informazioni supplementari e impreviste su altri aspetti del fenomeno.

 

Nel 1972 gli studiosi statunitensi Morris Rosenberg e Roberta Simmons interpellarono un gruppo di studenti di Baltimora per conoscere la loro posizione nei confronti delle persone di colore. I dati emersi dalla loro inchiesta contenevano però molte informazioni supplementari di ordine socio-demografico Su tale materiale lavorarono alcuni anni dopo altri due studiosi, Janet e Larry Hunt, studiando in particolare il rapporto tra l'assenza della figura paterna in famiglia e la socializzazione delle ragazze ai ruoli femminili.

 

Se si parla dei risultati ottenuti, possiamo banalmente affermare che una ricerca è valida se i risultati a cui approda sono esatti, cioè se rispecchiano l'effettiva realtà delle cose.

 

Bisogna però distinguere tra "validità interna" e "validità esterna”.

 

  1. ·        Si parla di validità interna quando le conclusioni di una ricerca sono valide almeno all'interno dell'ambito in cui è stata condotta. Perché ciò si verifichi non è sufficiente che siano impiegati strumenti validi, ma occorre anche che sia adeguata la condotta del ricercatore e che i risultati siano stati registrati correttamente.
  2. ·        Si parla invece di validità esterna quando i risultati di una ricerca si possono estendere a situazioni diverse da quella in cui è stata condotta. Il problema si pone soprattutto per gli studi fatti in laboratorio: condurre un esperimento o predisporre un'osservazione in un ambiente artificioso, appositamente predisposto dallo studioso, se da un lato ha il pregio di conferire maggior rigore alla ricerca, dall'altro può produrre conclusioni difficilmente trasferibili nella realtà quotidiana.
  3.  

 


Sociologia: gli intelletuali di fronte alla cultura di massa

 

Sociologia: gli intellettuali di fronte alla cultura di massa

Apocalittici o Integrati


?

Quali sono state, di fronte alle dinamiche culturali della società di massa, le reazioni della "cultura alta", intendendo con questa espressione una realtà abbastanza variegata, composta sia dai soggetti depositari delle forme tradizionali del sapere e delle modalità di comunicazione che lo veicolano (letterati, filosofi, artisti, intellettuali in genere), sia dalle istituzioni sociali deputate alla trasmissione della cultura e della conoscenza (scuola, università)?

Un'importante distinzione è stata introdotta da Umberto Eco nel 1964: quella tra apocalittici e integrati.

Nel linguaggio di Eco, "apocalittici" sono quegli intellettuali per nulla disposti a venire a patti con la cultura di massa, strenui difensori di una concezione aristocratica del sapere. L'intellettuale apocalittico disprezza le letture poco impegnate, i rotocalchi, i programmi televisivi e radiofonici, ma soprattutto non accetta l'idea che la cultura o, in generale, la conoscenza possano essere patrimonio di molti. 

Per l'apocalittico la cultura di massa è "anticultura": in questo senso il suo atteggiamento di rifiuto è rivolto, a ben guardare, alla società di massa e a ciò che essa rappresenta a livello politico e/o ideologico.

Per converso, gli "integrati" sono convinti che la civiltà di massa consenta un allargamento della base sociale della cultura e che produca un sapere che forse per la prima volta nella storia è davvero universale, condivisibile da tutti i membri di una società.

Questo costituisce, a giudizio dell'intellettuale integrato, una risposta sufficiente a tutte e critiche che si possano muovere alla cultura di massa. 

Ma l'integrato non si limita a difendere o a giustificare la società di massa e la sua cultura in linea teorica, ma ne utilizza anche gli strumenti, servendosi dei mass media e scrivendo libri divulgativi, oppure non disdegnando né i canali radiofonici e televisivi, né la rete per farsi conoscere.

Apocalittici e integrati sono naturalmente due idealtipi: la posizione concreta del singolo intellettuale è spesso una commistione di questi due atteggiamenti, che talvolta tende a inclinare maggiormente verso l'uno o verso l'altro. La contrapposizione ha comunque una validità euristica, in quanto identifica due visioni diverse, in un certo senso alternative, della cultura e del suo ruolo all'interno della società.

Le prime reazioni contro la società di massa

Già a cavallo tra Ottocento e Novecento, filosofi come Friedrich Nietzsche e psicosociologi come Gustave Le Bon espressero la loro preoccupazione rispetto alla crescente rilevanza sociale delle "masse", da loro intese come moltitudini sprovviste di autonomia intellettuale e facilmente manipolabili dall'esterno, incapaci di fare valere altre prerogative se non quella della consistenza numerica. 

Una possibile definizione della "massa" in opposizione ad altre forme di aggregazione si trova nel saggio Massa, pubblico e pubblica opinione del sociologo statunitense


Herbert Blumer. Secondo Blumer, mentre il pubblico è un gruppo di persone che si costituisce intorno a un determinato tema o problema, e che apre un dibattito per confrontare le diverse idee su come affrontarlo, la massa è un aggregato eterogeneo, privo di autocoscienza e di identità, incapace di organizzazione collettiva. Per la distanza spaziale che intercorre tra i suoi membri e la condizione di anonimato che caratterizza ognuno di essi, la massa si distingue anche dalla folla, con la quale condivide invece l'assenza di strutturazione e la condotta non razionale. 

Se il pubblico può formarsi un'opinione mediante il confronto delle prospettive individuali, la massa può solo accoglierla passivamente: non esiste infatti una vera e propria interazione tra i singoli soggetti, ma solo la relazione che collega ognuno di loro, isolato dagli altri, con l'informazione ricevuta grazie ai mezzi di comunicazione.


La disamina forse più spietata della società di massa, vista come decadenza inesorabile della civiltà occidentale, si trova nel saggio La ribellione delle masse del filosofo spagnolo José Ortega y Gasset. In quest'opera lo studioso, preoccupato di spiegare la deriva populistica della storia europea di inizio Novecento (che si esprime, a suo giudizio, sia nel proliferare dei regimi totalitari sia nella nascita del sindacalismo), cerca di individuare il "tipo umano" a essa corrispondente e lo identifica nell'uomomassa figlio della civiltà industriale, privo di valori e di memoria storica, preoccupato solo di difendere il proprio benessere materiale. 
Si noti che la "massa" a cui si riferisce Ortega non si identifica con le classi popolari, ma costituisce una realtà trasversale al corpo sociale, nata da quell'appiattimento generale delle condizioni e delle idee che, nelle società occidentali contemporanee, omogeneizza gli uomini al di là delle tradizionali distinzioni di nascita, ceto, censo e così via.

 

Le analisi dell'industria culturale nel secondo dopoguerra

Nel secondo dopoguerra, ovvero con l'esplosione della società di massa, le riflessioni sulle sue caratteristiche, e in particolare sui modelli culturali in essa imperanti, si fanno più approfondite.

Nel 1947 Theodor Adorno e Max Horkheimer, esponenti della Scuola di Francoforte, scrivono a quattro mani il saggio intitolato Dialettica dell'Illuminismo, un testo volto a indagare le degenerazioni del razionalismo occidentale - di cui l'Illuminismo settecentesco è figura emblematica — nella moderna società industriale. Secondo gli autori la ragione novecentesca non è più, come nei secoli passati, lo strumento di dominio della natura, ma si è trasformata in un organo di controllo e di asservimento degli esseri umani, piegati alle esigenze del sistema politico ed economico di cui fanno parte.

È proprio in questo contesto che i due filosofi introducono - per la prima volta nella storia del pensiero — il concetto di "industria culturale", caricando però tale espressione di un'accezione fortemente negativa: essi intendono infatti riferirsi al complesso dei prodotti e delle strategie di distribuzione nati dalla colonizzazione economica della sfera culturale, ovvero a quel fenomeno tipico della società industriale avanzata che finisce per asservire la cultura a scopi che le sono estranei: controllo sociale, cattura del consenso, promozione di stili e modelli di vita funzionali a una civiltà consumistica. 

L'industria culturale — proseguono Adorno e Horkheimer - si avvale soprattutto dei canali della comunicazione di massa (giornali, tv, cinema) e mette sul mercato prodotti standardizzati, qualitativamente mediocri, costruiti in modo da impoverire nel consumatore l'immaginazione e il senso critico, lasciandogli però l'illusione di essere sovrano delle sue scelte e dei suoi gusti. 

Benché l'industria culturale sia un fenomeno tipico della società di massa, per Adorno e Horkheimer essa non può essere definita "cultura di massa": questo appellativo genererebbe infatti l'erronea convinzione che si tratti di qualcosa che scaturisce in modo spontaneo dalle masse stesse, in opposizione alla cultura d'élite. L'individuo della società di massa, invece, è decisamente eterodiretto (ovvero "diretto da altri", dall'aggettivo greco éteros, "altro"), soggetto passivo di una cultura che non è lui a elaborare, ma che piuttosto lo "crea" a misura dei propri imperativi e valori.

Un ridimensionamento della posizione fortemente pessimistica dei Francofortesi viene da parte del filosofo e sociologo francese Edgar Morin con il saggio del 1962 L'esprit du temps  (Lo spirito del tempo), comparso nella prima traduzione italiana con il titolo L'industria culturale.

Morin parte dall'assunto secondo il quale la cultura di massa va compresa, più che demonizzata: per questo motivo non deve essere analizzata con le chiavi di lettura della cultura "alta", tradizionale, ma letta "dall'interno", come parte integrante della società in cui viviamo. "Cultura", sostiene Morin, è un termine relativo; in ogni società coesistono più culture: la cultura nazionale, la cultura religiosa, la cultura umanistica, ciascuna delle quali costituisce un corpus di simboli, miti e norme che orientano la vita e il pensiero delle persone. Anche la cultura di massa rientra in questo contesto e interagisce con le altre culture: essa può dunque accogliere in sé i loro elementi, ma anche permearle dei propri contenuti fino al punto di modificarle e corroderle.

Benché la cultura di massa non sia l'unica cultura del XX secolo, tuttavia secondo Morin essa ha una prerogativa peculiare: è per sua natura cosmopolita e planetaria, e in questo senso si presenta come qualcosa di radicalmente nuovo rispetto a tutte le altre, ovvero come la prima cultura veramente "universale" nella storia dell'umanità. 

 

Sociologia: l'industria culturale nella società di massa

 

Una nuova realtà storico sociale

Il primo di questi fattori è sicuramente l'allargamento della sfera dei consumatori, conseguente al miglioramento delle condizioni economiche delle classi popolari e al diffondersi di stili di vita basati sul godimento e sulla fruizione di beni e prodotti diversi. La disponibilità di redditi più alti, unita allo spirito di emulazione nei confronti dei ceti socialmente più elevati, spinge fin dai primi decenni del Novecento anche fasce di popolazione fino ad allora estromesse dai circuiti del consumo culturale a riempire non solo la dispensa o il guardaroba, ma anche gli scaffali della libreria, acquistando libri, riviste, dischi e altri prodotti di questo genere.

A ciò va aggiunta l'accresciuta scolarizzazione della società, che fornisce a un numero sempre più ampio di individui gli strumenti di base e gli stimoli intellettuali per accedere ai consumi culturali. Ma l'incremento della scolarizzazione influisce sulla trasformazione dell'industria culturale anche per altre vie, e cioè: 

  1. creando lo specifico settore dell'editoria dei testi scolastici; 
  2. ritardando l'ingresso dei ragazzi e delle ragazze nel mondo del lavoro, contribuendo così indirettamente a creare la figura sociale del "giovane", specifico target del sistema produttivo anche per quel che riguarda il settore dei consumi culturali.

Un altro fattore importante da considerare è l'accresciuta centralità delle masse popolari come soggetto politico. La conquista del suffragio elettorale universale in quasi tutti i paesi dell'Occidente e i traguardi raggiunti dal proletariato urbano grazie alle grandi manifestazioni di piazza che lo vedono protagonista costringono i governi dei vari Stati a confrontarsi con questo nuovo soggetto politico e sociale. 

Per i regimi dittatoriali come per le democrazie diventa pertanto fondamentale la ricerca del consenso, ovvero la conquista dell'appoggio delle masse popolari al fine di catturarne il voto e di prevenirne l'opposizione. Giornali, libri e film diventano così importanti strumenti di propaganda politica, soprattutto presso i sistemi totalitari. Anche i nuovi media come la radio e la televisione, che nascono in questo secolo, svolgono un importante ruolo in tal senso: l'industria culturale diventa il veicolo privilegiato per la trasmissione delle idee e il suo contributo si fa fondamentale per la gestione del potere.

Per designare il tipo di società che nasce grazie a questi mutamenti si è soliti parlare di società di massa e, corrispondentemente, di "cultura di massa": due espressioni in cui, l'aspetto puramente denotativo cede spesso volentieri il campo a interpretazioni ideologiche e a giudizi di valore.

 

I nuovi percorsi dell'editoria

Il settore dell'editoria conosce nella società di massa una crescita senza precedenti, e in una pluralità di direzioni.

L'industria del libro si arricchisce di nuovi generi e proposte: l'idea di fondo è quella di confezionare prodotti ad hoc per ogni utenza e situazione, venendo incontro ai bisogni del pubblico e anzi precorrendone e orientandone le richieste. Nasce così una letteratura per bambini, per ragazzi, per signore ecc.; si pubblicano libri di cucina, di fotografia, di sport, guide turistiche, manuali di ricamo o di bricolage, saggi su temi di politica e di costume. Al potenziale acquirente che entra in una libreria viene proposta un'offerta sempre più ampia e differenziata di prodotti, simile a quella che caratterizza un negozio di capi di abbigliamento.

Parallelamente, vengono divulgate le grandi opere della letteratura in edizione tascabile e i nuovi volumi, di dimensioni contenute ed economicamente più accessibili, vengono talora offerti come supplementi dei periodici o dei quotidiani.

Anche la lettura come pratica sociale si trasforma: spesso non è più un momento di incontro con un autore e con il suo mondo intellettuale, ma un piacevole passatempo che si può "consumare" anche in situazioni di totale relax; e analogamente si trasforma il libro, che si offre come oggetto collocabile a metà strada tra lo "scrigno", colmo di oggetti tra i quali curiosare, e il "formulario magico", che contiene una risposta pronta per ogni necessità: dal suggerimento dell'isola su cui andare in vacanza a quello delle erbe medicinali che possono curare la depressione.

La pratica della lettura conosce però nel corso del XX secolo anche nuove strade, che non portano al libro, ma ad altri prodotti editoriali: giornali, riviste, fumetti, ma anche fascicoli e dépliant, tutti legati allo sviluppo delle comunicazioni di massa. Anche in questo ambito si assiste a un processo di "segmentazione" dell'utenza: si pubblicano riviste per Un'utenza femminile, per l'infanzia e per molteplici fasce specifiche di lettori, come gli appassionati di sport o di motori.

La possibilità, grazie alle evoluzioni tecnologiche, di introdurre fotografie all'interno della pagina stampata favorisce inoltre la nascita di un nuovo tipo di rivista, il rotocalco, che, prevalentemente incentrato su temi di attualità, stabilisce una sorta di sinergia tra diverse forme di comunicazione di massa: le pagine delle riviste presentano infatti anche immagini di personaggi del cinema e della TV, contribuendo alla loro consacrazione nell'immaginario collettivo.

Le nuove pubblicazioni favoriscono poi lo "sdoganamento" di argomenti tradizionalmente tabù: il sesso fa capolino sulle copertine dei giornali attraverso i corpi poco vestiti di bellissime dive dello spettacolo. Vera icona di questo genere è la rivista "Playboy", che esce per la prima volta nel 1953 con le foto di Marilyn Monroe, la più rappresentativa sex symbol del momento.

A partire dal secondo dopoguerra, molte riviste italiane cominciano a ospitare un nuovo genere di intrattenimento: i fotoromanzi, racconti narrati attraverso sequenze di fotografie corredate da didascalie e balloons, interpretati da attori e attrici professionisti. Rivolto prevalentemente a un pubblico femminile di estrazione sociale medio-bassa, il fotoromanzo presenta i tipici contenuti del romanzo rosa: amore contrastato, incomprensione, tradimento, sofferenza e riscatto, e l'immancabile lieto fine.

Il successo riscosso da questo nuovo genere induce gli editori a utilizzarlo anche per altri scopi: alcuni settimanali cattolici, ad esempio, scelgono di raccontare in forma di fotoromanzo le vite dei santi o le grandi opere della letteratura mondiale.

 

La cultura della TV 

La fisionomia peculiare che l'industria culturale assume nel Novecento scaturisce però soprattutto dalle trasformazioni che in quel periodo investono il mondo delle comunicazioni di massa. La nascita di nuovi media (la radio e la televisione, ma soprattutto i nuovi strumenti prodotti dalla rivoluzione informatica) e la definitiva consacrazione di media già esistenti finiscono per generare quel l'identificazione tra cultura e comunicazione che è forse il tratto più tipico della società di massa, nel senso che il sistema di conoscenze, di simboli, di credenze condivise che la identificano passa attraverso i canali della comunicazione di massa.

La TV è forse l'icona più rappresentativa di questo nuovo assetto. La sua nascita come strumento di comunicazione di massa risale al periodo tra le due guerre mondiali, quando sia in Europa sia negli Stati uniti vengono inaugurate le prime tecniche di trasmissione a distanza di contenuti visivi e sonori. Negli anni successivi, quando il nuovo medium si diffonderà nei principali paesi industrializzati, Gran Bretagna e Stati uniti costituiranno i due modelli di riferimento per la definizione della sua funzione sociale: servizio pubblico gestito direttamente dallo Stato (sul modello della britannica BBC) o impresa affidata alla libera iniziativa privata e finanziata dagli introiti pubblicitari, come le molteplici emittenti via cavo presenti sul territorio statunitense.

In Italia, dove le prime trasmissioni televisive cominciano nel gennaio 1954, si afferma decisamente il primo modello, legato all'idea secondo cui la deve avere 3 scopi fondamentali: istruire, educare, divertire. Solo alla fine degli anni Settanta, quando una sentenza della Corte costituzionale decreta la fine del monopolio radiotelevisivo di Stato, nascono le prime televisioni private, create da editori, giornalisti, imprenditori.

Per comprendere il ruolo progressivamente assunto dalla televisione all'interno dell'industria culturale è utile ricorrere a una distinzione introdotta dal noto studioso italiano Umberto Eco, e accolta da molti studiosi di mass media: quella tra paleotelevisione (la "vecchia" tv) e neotelevisione (la "nuova' tv).

 

Eco introduce questa distinzione in riferimento alla televisione italiana, ma le sue riflessioni possono riferirsi, più in generale, all'evoluzione storica del mezzo televisivo.

La paleotelevisione è la TV delle origini: essa si caratterizza per mezzi tecnici ancora modesti (le immagini sono in bianco e nero) e un palinsesto limitato sia quantitativamente sia qualitativamente (le ore di trasmissione sono contenute e i programmi sono imperniati su 3 generi: cultura, informazione, divertimento). Soprattutto, la paleotelevisione è effettivamente un medium, cioè un mezzo che mette in rapporto lo spettatore con ciò che viene trasmesso: un fatto di cronaca, uno spettacolo, un dibattito politico o culturale.



Nella neotelevisione - che nasce con il diffondersi delle emittenti private, ma pervade ben presto lo stesso servizio pubblico - si assiste a un radicale stravolgimento di questo assetto: si dilata la giornata televisiva, con un flusso continuo di programmi che coprono le 24 ore; i 3 generi della w tradizionale si riducono progressivamente a uno solo, un misto di informazione e divertimento definito da alcuni studiosi infotainment (dall'inglese information + entertainment). Inoltre, ed è questa forse la trasformazione decisiva, la neotelevisione parla praticamente solo di se stessa: da strumento di informazione su una "realtà" che si presume autonomamente esistente, essa diventa fonte di realtà.



Nella neotelevisione, sia pubblica sia privata, la principale risorsa economica è la pubblicità nelle sue varie forme: spot, sponsorizzazione di programmi, televendite. La centralità del ruolo economico delle aziende, che acquistando spazi pubblicitari garantiscono la sopravvivenza della rete, si ripercuote sul rapporto televisione-spettatore; quest'ultimo è visto non più come un cittadino da informare, ma come un consumatore da blandire e lusingare allo scopo di conquistarne la fiducia.

Pag 424 Domande

1)
a) F
b) V
c) F
d) V
e) V

2)
a) D
b) B
c) C

3)
a) Rotocalco
b) Apocalittico
c) Infotainment

4.

a) George Melies e David Griffith furono i primi ad utilizzare il cinema come strumento di comunicazione e di intrattenimento sociale invece di impiegarlo unicamente per scopi documentaristici. Fu infatti grazie a Milier che il cinema diventò messa in scena di situazioni fantastiche, con il suo film "Il viaggio nella luna". Dobbiamo invece a Griffith la consapevolezza del potenziale ideologico e pedagogico-sociale del cinema.

b) I sociologi Theodor Adorno e Max Horkheimer furono i primi ad utilizzare il termine di "industria culturale", riferendosi ala complesso dei prodotti e delle strategie di distribuzione nati dalla colonizzazione economico della sfera culturale, che finiscono per asservire alla cultura scopi quali il controllo sociale, la cattura del consenso e la promozione di stili e modelli di vita adatti ad una società consumistica.

5.

All'interno della società di massa, l'industria culturale agisce una vera e propria "colonizzazione" della vita quotidiana: essa costituisce il "sottofondo" dell'esperienza quotidiana di ogni individuo. Per esempio, la musica può essere ascoltata ovunque, si possono guardare film anche all'interno delle mura casalinghe grazie alla televisione e la fotografia può essere praticata come pratica amatoriale da chiunque possegga una telecamera. Questa colonizzazione è resa possibile anche da una nuova sinergia tra i vari ambiti della cultura: fotografia e stampa, radio e musica, non esistono quasi più separate le une dalle altre. Avviene inoltre che i generi "trapassino" da un settore all'altro. Per fare un esempio, esistono libri di fantascienza, ma anche fumetti e film. 
Un'altra caratteristica peculiare dell'industria culturale all'interno della società di massa è il costituirsi di una sorta di "mitologia", in cui l'olimpo è composto dal mondo dello spettacolo e gli Dei sono i divi dello spettacolo, quali cantanti, atleti, attori, ma anche scienziati e politici, privati delle loro caratteristiche particolari e resi oggetti di interesse pubblico (si parla dei loro viaggi, matrimoni, ...). Il sociologo francese Edgar Morin giustifica lo sviluppo di questa cosiddetta mitologia affermando che, così come ogni altra cultura, la cultura di massa ha sviluppato la propria mitologia.
Si teorizza inoltre che questo processo di "divinizzazione" sia composto da due "spinte" complementari: la prima, suggerita da Umberto Eco e denominata "riduzione all'everyman", afferma che la gente semplicemente ama riconoscersi nei personaggi dello spettacoli, notare di avere qualcosa in comune con loro. A questa si aggiunge il fatto che gli stessi personaggi danno corpo ad aspirazioni che la gente comune non può realizzare, e ciò causa invidia ma anche ammirazione.